Antenna Uno Rockstation
 
lunedì, 5. aprile 2004

THE DARKNESS

Permission To Land è assolutamente il disco giusto al momento giusto – in un periodo di crisi del bri-pop e nell’attesa (che oramai sembra durare da secoli) di una nuova stella catalizzatrice di pensieri e suoni.
I Darkness sono riassumibili nel video di Growing On Me, dove un’orgia di Freddie Mercury, Mick Jagger e David Bowie confluisce gagliarda nel cantante Justin Hawkins e, in un tripudio di astronavi, raggi laser e mostri di ogni specie, vede nella parte finale un assolo del chitarrista davanti ad un muro di ampli Marshall. Quando si dice la classe…
Ma il sound? Efficace come pochi, troppo genuinamente fresco per essere stato studiato a tavolino. Insomma: se non siete alla ricerca di sonorità all’avanguardia e volete tralasciare per un attimo il piacere di scoprire non dovreste rinunciare ai Darkness.
Pochi secondi dell’iniziale Black Shuck e si intuisce di che pasta è fatta la band. Una manciata di minuti di puro rock n’ roll alla AC/DC per introdurre brani dai titoli agghiaccianti come Get Your Hands Off My Woman, Love On The Rocks With No Ice and Love Is Only A Feeling.
Cercare di descrivere canzone per canzone sarebbe una lunga citazione dell’albero genealogico del rock inglese e quindi eviterei a priori; ma resta il fatto che se di revival si tratta, con i Darkness è di classe e senza troppe forzature.
Forse perché le cose vecchie ci sembrano migliori o forse perché il tempo ci regala da sempre “presenti” difficili da digerire: fatto sta che consiglio il CD se si vuole staccare la spina, se non si pretende troppo da un’ora di musica o solo perché c’è sempre tempo per essere nervosi e tristi.
Alex Franquelli (Musicboom)

I Darkness sono una presa in giro, in senso buono. Suonano il genere più semplice ed acchiappone di questo universo, un miscuglio di tutto quello che il rock da classifica ha sfornato nei settanta, una mistura piaciona di Thin Lizzy, Ac/Dc, Sweet (Chi sono? Vergogna...) e via dicendo. Eppure hanno possibilità uguali sia di far impazzire oceani di folla per la propria musica, sia di irritarne altrettanta a morte...

Il motivo ha un nome: Justin Hawkins. Se infatti a livello di canzoni i Darkness non sono altro che un simpatico gruppo di Rock`n`Roll, piacevole, tecnicamente accettabile e molto dotato in fatto di singoli e "fattore orecchiabilità", la voce del loro comunque carismatico frontman è quanto di più raggelante ci si possa immaginare, o la si ama o la si odia.
Immaginatevi questo: un singer belloccio, inguainato in tutine leopardate alla Jagger che tra una posa da rockstar vecchio stile e l`altra canta in una tonalità a metà tra un Freddy Mercury sopra le righe ed un falsetto lacerante che a tratti esplode in gorgheggi che o trovate divertente o vi fan venire voglia di sparargli.

Se superate questo scoglio (e nonostante a me piaccia, ammetto che sia duro da superare) avete un set di canzoni di una ruffianeria devastante, perfette da mettere in macchina come sottofondo per una serata "particolare". "Black Shuck" sembra sgorgare direttamente dai solchi di "Back in Black", "Get your hands of my woman" ha un ritornello che non si leva più dalla testa, idem "I believe in a thing called love", mentre "Growing on me" e "Holding my own" (Doppio senso voluto...) sono le ballate perfette per far atmosfera con la vostra lei.

La stampa britannica sta impazzendo per loro, li divinizza ma questo, si sa, capita per ogni singola ciofeca del loro paese. I The Darkness non sono geni, non sono originali e non sono nemmeno per tutti i gusti ma hanno sfornato un platter vivo e gustoso, in una scena che purtroppo tende sempre di più a smarrire la componente base del rock `n` roll: il divertimento.
Andrea Costanzo (Kronic)

L’accostamento del cantante Justin Hawkins dei Darkness, gruppo ora molto in auge in Inghilterra, al compianto Freddie Mercury avrà fatto rivoltare nella tomba l’ex Queen. Magari i fatti mi smentiranno e i Darkness tireranno fuori dal Cilindro album mirabili (ne dubito fortemente), ma per ora tra riff triti e ritriti, assoli troppo lunghi e un falsetto da emicrania la band inglese pare solo una parodia di qualche band hard rock degli anni ’70, gli unici brani da salvare son l’impeccabile "I believe In a thing called love" e la discreta "friday night".
Andrea Ferrari (uscita di sicurezza)

Nell’anno della resurrezione del metal, Permission To Land gronda di quel rock in tempesta ormonale che pareva dimenticato. Il falsetto di Justin Hawkins rievoca Freddie Mercury (non è casuale un titolo come “I Believe In A Thing Called Love”), le dosi di riffoni di chitarra sono generose (“Giving Up”) e l’impronta pop sui brani dà vita a una scrittura mai banale, neanche nell’inevitabile ballad finale “Holding My Own”. Aggiungete a tutto questo l’autoironia della band e avrete chiare le ragioni per cui è difficile non innamorarsene.
Dado Minervini (Rockstar)

Com’è che una band – come questa, proveniente dal Suffolk, e formata da due fratelli e due amici innamorati dell’hard rock anni ’70 – arriva a diventare la rivelazione del momento, fino a convincere e stordire gli ascoltatori più appassionati? Forse vincendo premi e ottenendo entusiastiche recensioni copertine, com’è capitato ai Darkness negli ultimi tempi? Se così fosse, dimostrerebbe che la stampa musica, almeno in Inghilterra, ha davvero un gran potere nella strada verso la scalata alle classifiche. Alla faccia di chi dice che i giornali musicali non fanno vendere i dischi: “Permission to land” viene pubblicato ora in Italia, ma quando è uscito lo scorso luglio in Inghilterra ha debuttato al numero 1.
La domanda di cui sopra è tanto più legittima se si ascolta questo disco. Che sembra il prodotto di una cover-band degli Ac/Dc, degli Zeppelin, o dei Queen più tosti, alle prese con brani inediti. Va bene che non abbiamo visto i Darkness dal vivo, ma abbiamo sentito le loro canzoni: che sono fatte di riff che sembrano rubati ad Angus Young, e di melodie cantate spesso in falsetto, e che citano apertamente suoni e atmosfere provenienti dall’hard rock più classico. Abbiamo letto i testi delle loro canzoni, che parlano di “Venerdì sera” e di cose come “Tieni lontane le mani dalla mia donna” . E abbiamo visto le loro foto, in cui i Nostri si mostrano bardati in tutine attillate e tigrate alla Steven Tyler, o con pizzetti alla Lemmy dei Motorhead.
Insomma, alle nostre orecchie di europei continentali, un po’ diffidenti verso le manie periodiche di chi vive oltre manica, questo “Permission to land” non suona come qualcosa per cui perdere la testa. Suona piuttosto come un disco di rock ben suonato e ben scritto, ma terribilmente già sentito e terribilmente demodé. Forse è questo che piace agli inglesi – dopo il garage rock rivisitato degli Strokes, ecco l’hard rock rivisitato dei Darkness.
Rockol (Gianni Sibilla)

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